IL VERO SHAOLIN, TESTIMONIANZA DI UN ITALIANO

Tiziano Terzani

Il tempio di Shaolin è un tempio molto importante nella storia del Buddhismo e delle arti marziali tradizionali cinesi. Si trova sul versante settentrionale del monte Songshan, nella contea di Dengfeng, nell’attuale regione dello Henan.

Chiunque pratichi Wushu, conosce il nome di questo tempio, al quale si attribuisce (non proprio correttamente) la creazione di tutte le arti marziali cinesi e non. Le leggende sul monastero e i suoi monaci invincibili, alimentate dalla filmografia, dai romanzi e dal rumor marziale hanno portato molti a considerare il monastero un luogo mitico, meta di veri e propri pellegrinaggi di appassionati, curiosi e turisti delle arti marziali, dove si pensa sia depositato il sapere più autentico del Wushu e del Buddhismo cinese. Sebbene questo sia in parte vero, non tutto quello che si dice riguardo a questo tempio e alla sua antichissima tradizione corrisponde alla realtà storica. Purtroppo, sia in Cina che in Europa, non sempre si è correttamente informati sulla storia e le storie delle arti marziali cinesi e spesso si ignorano le vicende che il Wushu tradizionale ha attraversato nel corso della sua evoluzione, soprattutto in tempi moderni.

Pochi sanno che sul finire degli anni ’70 il monastero di Shaolin era quasi totalmente distrutto e che i pochi e malandati monaci residenti avevano perso quasi del tutto la tradizione marziale per la quale il monastero fu famoso per tanti secoli. Come gran parte del retaggio tradizionale cinese, le arti di Shaolin, così come la sua tradizione spirituale, erano state spazzate via dai terribili anni della rivoluzione culturale (1966-1976) e ancora nei primissimi anni ’80 il monastero versava in condizioni pessime.

Fu dopo l’uscita del film The Shaolin Temple del 1982, il quale scatenò una vera e propria febbre per li Kung fu tra i cinesi di quegli anni, che il governo cinese, incoraggiato dalle nuove politiche economiche di Deng Xiaoping (programma di “Riforme e aperture” del 1978), fiutò l’affare delle arti marziali e decise di ripristinare la gloriosa tradizione del monastero di Shaolin per la gioia dei nuovi aspiranti guerrieri. Fu così che Shaolin, sia come complesso monastico sia come sistema di combattimento, fu ricostruito dallo Stato Cinese e ampliato fino a diventare la mastodontica attrazione turistica che è oggi.

Un nostro illustre connazionale, il giornalista e scrittore Tiziano Terzani, durante il suo lungo soggiorno in Cina (1980-1984) ebbe la fortuna di visitare il monastero proprio negli anni a cavallo tra la totale malora e l’inizio dei primi interventi di “risanamento”. Con occhio analitico e disincantato, Terzani fece un resoconto molto dettagliato sulla gloriosa tradizione, il tragico declino e la provvidenziale ripresa delle arti marziali di Shaolin.

MAESTRO… Sono pronto. Nessun sacrificio mi scoraggerà. Nessuna privazione mi fermerà. Lasciatemi venire e sarò vostro devoto discepolo…» La lettera era arrivata dalla lontana Europa e il vecchio abate del monastero di Shaolin, nascosto tra le aride, rocciose scarpate di Song Shan, la montagna sacra della Cina centrale, nella provincia di Henan, non potè leggerla e così la passò alla polizia. Lì la lettera si perse tra la massa di altre lettere simili, scritte da giovani di tutto il mondo per supplicare di essere accolti come discepoli dai monaci del famoso tempio dove più di 1400 anni fa nacquero il buddismo Zen e l’arte mortale dei Kung fu.

L’aspirante europeo non ricevette mai risposta. Tanto meglio per lui. Se gli fosse stato permesso di venire a Shaolin, avrebbe ricevuto un duro colpo: gran parte dei monastero è in rovina, le statue di Budda sono nuove e di gesso dipinto, i pochi monaci sopravvissuti sono vecchi e tremanti, incapaci di alzarsi dal letto e ancor più di spaccare mattoni coi loro pugni o di saltare a piè pari al di là di alti muri. i giovani novizi sono deboli e pallidi, alcuni persino storpi. Il Kung fu non è più praticato nel tempio; la famosa sala, dove attraverso i secoli monaci in addestramento hanno battuto i loro piedi callosi per terra facendo avvallare il pavimento di pietra, è coperta di polvere. Gli undici pali di legno alti due metri, sulla cima dei quali i vecchi maestri facevano saltare e rincorrersi i novizi per aumentare la loro agilità e rafforzare il loro senso dell’equilibrio, sono fuori uso, sepolti nella sabbia.

Gli unici monaci lottatori che si vedono in giro sono quelli dipinti negli affreschi dei tempio che, in passato, gli apprendisti usavano come fossero un libro di testo per imparare i colpi mortali tra una seduta di meditazione e l’altra. Shaolin Si, il Monastero della Giovane Foresta, oggi non è un centro né di meditazione buddista né d’arte marziale. E’ semplicemente un’ennesima attrazione turistica dove ogni giorno centinaia di cinesi, e per ora solo alcuni turisti stranieri, vengono portati a curiosare tra i poco ispiranti cortili del tempio, tra le bancarelle gestite da monaci che vendono cianfrusaglie e souvenir, tra cui – colmo dell’assurdità – dei piccoli crocifissi con la parola “Cristo” sul retro.

«La rinascita del Kung fu ci ha procurato un sacco di affari e ci sta aiutando a modernizzare la nostra regione», dice Wang Zhizhou, direttore dell’ufficio Affari Esteri di Deng Feng, la capitale della contea a diciassette chilometri dal monastero. La rinascita del Kung fu è cominciata quattro anni fa, quando le autorità di Pechino decisero di riaprire il tempio e di permettere a una società cinematografica di Hong Kong di ambientarvi il primo film di Kung fu mai girato in Cina.

Basato su un famoso episodio della storia cinese, il film, intitolato Il tempio di Shaolin, racconta le vicende dell’imperatore Tai Zong, fondatore nel VII secolo della dinastia Tang, il quale una volta, inseguito dai nemici, venne salvato da tredici nobili monaci di Shaolin capeggiati da un giovanenovizio, Zhang il Tigrotto. Il film, pieno di scene sensazionali, di combattimenti violentissimi e sanguinosi, un puro divertimento privo dei messaggi politici che gravano su ogni altra opera prodotta in Cina, ha avuto uno strepitoso successo. E’ stato proiettato per settimane nelle sale cinematografiche gremitissime di tutto il paese ed è stato all’origine della nuova voga delle arti marziali che sta facendo impazzire i giovani della Cina. In soli sei mesi più di ventimila persone hanno scritto al monastero: più di cento ragazzi, fra cui un bambino di nove anni, dopo aver visto il film sono scappati di casa per venire in treno, in barca, a piedi, in autobus a bussare alle porte di Shaolin sperando, come nella leggenda, di essere presi dai vecchi monaci come discepoli.

«Li abbiamo rimandati tutti a casa. Siamo uno Stato socialista e anche il Kung fu va insegnato secondo il piano dello Stato», mi spiega serissimo Liang Yichang, vicedirettore dell’Associazione per le arti marziali di Shaolin, un’organizzazione appena creata dal Partito Comunista per prenderei mano l’insegnamento di tutte le arti marziali, un tempo monopolio gelosamente custodito dai monaci buddisti.

I monaci di Shaolin vennero meno alla loro reputazione di grandi lottatori al tempo della Rivoluzione Culturale. Quando le Guardie Rosse, nel 1966, arrivarono qui per “eliminare le vestigia del passato”, nessuno dei duecento monaci che erano sopravvissuti sotto il regime comunista oppose resistenza. Le statue di Budda furono abbattute e fatte a pezzi, i muri vennero impiastricciati di slogan maoisti, la maggior parte dei monaci fu mandata a lavorare nei campi, un gruppo dei più vecchi venne messo sotto chiave in un cortile separato del tempio, e Shaolin fu chiuso. Tutta la letteratura cavalleresca concernente Shaolin finì alle fiamme, e anche la semplice pratica dei Kung fu venne attaccata dagli ideologi comunisti del tempo come “immondizia feudale”.

La tradizione di Shaolin, però, sopravvisse, anche se fuori della Cina. “Tutte le arti marziali dei mondo sono nate a Shaolin”, è un vecchio modo di dire cinese; ed è vero che gli esperti di varie forme di lotta, dal judo al karate giapponese, al kendo coreano, considerano il vecchio tempio nella provincia di He-nan come il sacro luogo d’origine della loro arte.

All’inizio degli anni ’60, King Wu, un regista di Hong Kong, lanciò con il film “Un tocco di zen” un nuovo genere di western cinese, appunto basato sulle avventure dei monaci di Shaolin. L’industria cinematografica di Hong Kong prese la palla al balzo e una dozzina di film, che avevano per protagonista Bruce Lee, fecero diventare il Kung fu uno sport popolarissimo prima nel Sud-Est asiatico, poi in tutto il mondo.

Dopo la morte di Mao e la caduta della Banda dei Quattro nel 1976, i nuovi dirigenti cinesi si resero conto che il Kung fu era una vera miniera d’oro e che era assurdo lasciarla sfruttare ad altri i quali, dopotutto, non avevano neppure il tempio di Shaolin. Fu cosi che Pechino decise di investire denaro per la riparazione e la riapertura del tempio, che alcuni monaci vennero ripescati, riabilitati e rimessi a vivere a Shaolin. E fu cosi che la povera, grigia Deng Feng, la cittadina ai piedi del Song Shan, la montagna sacra che nel frattempo era stata spogliata di tutte le sue celebri foreste, fu messa sulla carta turistica della Cina. Il Kung fu tornò di moda e la stampa ufficiale cominciò a a promuovere le arti marziali con lo slogan “ottimo per l’individuo, ottimo per la patria”.

La sonnolenta contea di Deng Feng, a sud del Fiume Giallo, è stata invasa da una marea di persone che volevano vedere il tempio sacro e imparare i segreti che vi si conservavano. Per accogliere i gruppi turistici, le autorità del luogo hanno costruito un motel, mentre sono comparse per i viaggiatori meno abbienti una dozzina di gan dian (alberghi asciutti, cioè senza il servizio dell’acqua) gestiti da privati. Un’autostrada larga dieci metri è stata aperta fra Deng Feng e il tempio; un “negozio dell’amicizia” ha cominciato a funzionare, accanto all’ingresso di Shaolin, vendendo Coca Cola e birra. L’Associazione per le arti marziali è stata costituita per addestrare giovani lottatori e per organizzare speciali rappresentazioni di Kung fu per i turisti, ovviamente… a pagamento. Al momento, i lottatori mettono in scena il loro spettacolino nello spiazzo per gli autobus davanti al motel.

Incoraggiati dalle nuove direttive di Deng Xiaoping, che ha concesso ai cittadini la libertà di arricchirsi , la gente del luogo ha aperto piccoli laboratori dove vengono prodotti ricordi di Shaolin, ha impiantato bancarelle che vendono cibo e bevande, mentre alcuni contadini affittano i loro cavalli ai turisti che voglio essere fotografati davanti ai 230 stupa del “cimitero di pietra”, dove sono sepolti i grandi maestri del Kung fu del passato.

Per far fronte alle migliaia di lettere, alcune scritte col sangue, di giovani che vogliono imparare il Kung fu, le autorità hanno consentito l’apertura di scuole e palestre a Deng Feng. «E gli stranieri?» chiedo. «Abbiamo ricevuto lettere da tutti gli angoli del mondo», dice il direttore degli Affari Esteri della contea. «Alcuni sono disposti a tutto pur di venire qui, ma questa è una cosa che non possiamo decidere noi. Il permesso deve venire da Pechino». Per il momento Pechino permessi simili non li dà.

Nelle scuole cresciute attorno al tempio ci sono 500 bambini che studiano le arti marziali: 300 sono di qui, 200 vengono da altre parti, anche lontane, della Cina. «Ho visto il film e ho supplicato i miei genitori di mandarmi qui. Voglio studiare bene, e forse un giorno potrò anch’io essere in un film», dice un ragazzino timido e magro arrivato qui un anno fa da un villaggio nella provincia di Guizhou, a duemila chilometri di distanza. Rimarrà a Deng Feng per cinque anni.

La scuola si trova in una fornace abbandonata ai piedi della montagna, sulla via della pagoda di mattoni di Song Yeu, il più vecchio edificio di questo tipo in Cina. La vita dei ragazzi è spartana: tutti e tredici (due sono ragazze) dormono su un pancone di legno e mangiano in un refettorio. Sveglia alle sei, corsa e, tutto il giorno, esercizi e studio. Benchè i “novizi ” non facciano più alcuni degli esercizi dolorosissimi dei novizi di un tempo, le loro mani e i loro piedi sono pieni di piaghe, vesciche e graffi causati dal ripetuto picchiare contro i sacchi di sabbia.

La scuola è gestita da una cooperativa agricola, la quale ha pensato bene di impiegare uno dei suoi contadini che era stato monaco di Shaolin fino all’arrivo dei comunisti nel 1949. La retta che gli studenti pagano, e che comprende vitto, alloggio e lezioni di Kung fu, è di 30 yuan al mese. Per la cooperativa agricola è un buon affare, per gli studenti che la frequentano è un investimento (30 yuan corrispondono alla metà di uno stipendio medio operaio): in un paese dove la disoccupazione fra i giovani è in aumento, essere maestro di Kung fu, ora che i vecchi si stanno estinguendo, vuol dire certezza di lavoro ed eventualmente anche di fama. Di queste scuole gestite dalle cooperative ne esistono una dozzina, mentre altre tre sono amministrate dalle scuote della contea. Inoltre ci sono alcuni contadini che, affermando di essere stati monaci nel tempio, hanno cominciato a prendere a pensione dei giovani e a dare loro lezioni private per 25 yuan al mese. Non tutti gli allievi sono soddisfatti. «Volevo imparare ad attraversare i muri e a saltare sui letti, ma qui tutto quello che mi fanno fare è ginnastica», dice un ragazzo di quindici anni venuto dalla manciuria.

Gli istruttori di Kung Fu di Deng Feng dicono che la delusione fra gli studenti è comune nelle prime settimane, ma che poi passa e che quasi nessuno se ne va, una volta che è stato ammesso. «Il problema è che molti giovani arrivano con idee sbagliate. Pensano che il Kung fu sia quello che vedono al cinema», dichiara il preside della scuola numero 15 di Deng Feng. «Noi non possiamo insegnare a fare miracoli».

A parte i ” miracoli”, le scuole di arti marziali di Deng Feng, ora, sotto la supervisione delle autorità comuniste locali, non insegnano nemmeno alcune mosse classiche del Kung fu, tipo il “colpo assassino della tigre” e il “calcio mortale dei bue”, con cui si può uccidere un avversario. «Queste mosse sono troppo pericolose e lo Stato non incoraggia simili attività», afferma Liang Yichang, vicedirettore dell’Associazione per le arti marziali, discendente da una famiglia di grandi maestri di Kung fu e che grazie a quell’arte, scampò alla morte quando, da giovane, una banda di ladri entrò nella sua casa e lui solo con i fratelli ancora piccoli riuscì a metterli in fuga con una serie di colpi.

 «Il Kung fu non ha bisogno di essere così mortale come lo era una volta. Ora dobbiamo addestrare dei bravi lottatori, ma anche dei bravi cittadini».

Oggi gli studenti di Kung fu non prestano più giuramenti che venivano fatti dai monaci Shaolin. Hanno però un giuramento tutto loro. «Parte dell’addestramento consiste nell’insegnare agli studenti i cinque accenti e i tre amori», dice il maestro Liang riferendosi alle virtù, più o meno confuciane, che il Partito Comunista sta tentando di rilanciare fra i giovani.

Certo è che il Kung fu si è reso utile a Deng Feng, dove, secondo il piano approvato da Pechino, il Kung fu sarà al centro dello sviluppo economico di questa regione, sarà la grande attrazione turistica, la merce più importante per l’esportazione in questa povera contea fino a poco tempo fa sconosciuta, isolata e arretrata.

A settembre, quattro asili inizieranno, in fase sperimentale, corsi di Kung fu per i piccolissimi; il numero di scuole elementari e medie che si specializzeranno nell’insegnamento del Kung fu verrà raddoppiato, e un numero sempre maggiore di studenti potranno iscriversi giungendo da ogni parte della Cina.

Le attrezzature turistiche della contea verranno ingrandite con l’aiuto di società di Hong Kong. Tra cinque anni* Deng Feng comincerà a sfornare i primi “laureati” in Kung fu (ci vogliono dai sei agli otto anni per diventare un buon professionista) e si prevede che allora il totale degli studenti si aggirerà attorno ai 15.000.

«Sarà Deng Feng a fornire all’intera Cina i maestri di Kung fu», dichiara con orgoglio Wu Chende, della commissione provinciale per lo sport.

Che cosa ha a che fare tutto questo con il monastero? Che cosa con i monaci?

«Le arti marziali non hanno bisogno del buddismo per vivere», dice Wang, dell’ufficio Esteri. «I monaci si occupino della religione chè noi ci occupiamo dello sport».

In verità, gli undici monaci che vivono ora nel complesso di Shaolin non sono neppure liberi di occuparsi della religione perchè lo Stato, che incoraggia e finanzia la rinascita del Kung fu, non incoraggia affatto la rinascita del buddismo, anzi non la vuole. Il monastero di Shaolin è ora controllato da tre unita diverse (l’ufficio per i Beni Culturali, l’Associazione patriottica buddista e… l’ufficio per i Parchi e i Divertimenti): tutte tre le unità sono sotto il controllo del Partito Comunista e i monaci che vivono di nuovo nel tempio non hanno il permesso di fare proseliti, di insegnare la religione, o di scegliere i loro discepoli.

«Molti giovani sono venuti qui perchè volevano diventare monaci, ma abbiamo dovuto rifiutarli» , afferma l’abate De Chan. «Solo lo Stato può fare questa scelta, e allo Stato piacciono coloro che hanno una buona motivazione e buona faccia».

Negli anni passati quattordici novizi sono stati reclutati dallo Stato per il monastero: tre sono stati mandati a studiare il buddismo a Nanchino, gli altri lavorano come assistenti dei vecchi monaci. Quello assegnato a De Chan è zoppo e tonto, e sembra che lo Stato lo abbia mandato qui perchè non sapeva altrimenti che farsene.

«I vecchi monaci stanno morendo e ce ne occorrono di nuovi per tenere in vita Shaolin», dice in tutta onestà un funzionario della provincia.

E’ ovvio: il monastero è un elemento indispensabile per la rinascita e lo sfruttamento dei Kung fu, sia come sport sia come attrazione turistica; ed è per questo che Shaolin è stato riaperto, che sono stati fatti investimenti e che i vecchi monaci sopravvissuti alla Rivoluzione Culturale sono stati riportati qui a far da comparse su questo palcoscenico rimesso a nuovo.

L’ultimo ad arrivare è stato l’abate Hai De, ottantaquattro anni, famoso perchè da giovane era capace di restare in aria appoggiandosi solo con due dita per terra e perchè da sessant’anni a questa parte non ha mai dormito in un letto, bensì seduto come, nella sua caverna, fece Da Mo, che 1400 anni fa creò questa inseparabile combinazione di Kung fu e di meditazione.

Ora, questa tradizionale unità di meditazione e azione è finita proprio qui dove nacque. Buddismo e Kung fu debbono per forza avere un destino diverso. Seduto sul suo letto, l’abate De Chan si accarezza le lunghe sopracciglia e, guardando nel vuoto, sorride come ci scoprisse cose che io non riesco a immaginare: «Il futuro dei buddismo, con i miei occhi, non riesco a vederlo, ma vedo quello del Kung fu. Ce l’ho tutto attorno». Accanto alle mura rosso-sangue del tempio, squadre di operai – patrioti stanno tirando su le pareti di una palestra di Kung fu, mentre altri scavano le fondamenta di un nuovo albergo per turisti.

A chiusura di questo illuminante brano di Terzani, riportiamo un passo scritto dal venerabile maestro Heng Lin, abate del tempio Shaolin dal 1912 al 1923. Egli molti decenni prima della spettacolarizzazione e commercializzazione delle arti marziali scrisse:

“Ora che i costumi degenerano, non si ha più rispetto per le vecchie generazioni. Ognuno rivendica la diffusione dei segreti dell’arte e ci sono discepoli che rubano le tecniche, facendo delle acrobazie il proprio lavoro. Non si offre più ospitalità al prossimo e la trasmissione dell’arte comincia a decadere”.

Chissà cosa avrebbe pensato e scritto oggi il maestro Heng Lin di fronte alle migliaia di persone in fila alla biglietteria del suo tempio pronte a vedere atleti dal capo rasato fare acrobazie e comprare a buon prezzo i segreti antichi di Shaolin?

Autore dell’articolo: Dott. Eduardo Tobia Caposcuola dell’associazione LONGMEN di Terni